
Il significato del termine “Maschera” affonda le sue radici nella commedia dell’arte del 1500, ed è una nobile tecnica teatrale che consiste nella creazione di un personaggio di cui l’attore si serve, quasi come se fosse una sua seconda personalità o meglio il suo alter-ego, per interpretare un ruolo cinematografico o teatrale . La “Maschera” è stata portata con successo anche nel cinema, dove ha trovato la sua consacrazione. Non tutti gli attori sono in grado di essere “Maschere” e non tutti gli attori sono in grado di inventarne una adatta per il cinema e che possa piacere al pubblico. Le “vere” Maschere del cinema italiano possono essere ricomprese in non più di una quindicina, alcune talmente popolari da essere rimaste nella memoria collettiva, quasi più famose dell’attore che le ha interpretate. Così, per esempio, tutti associano Totò al Principe De Curtis, o Fantozzi a Paolo Villaggio. La “Maschera” è dunque una seconda pelle, una costola dell’attore, della persona, che si porta con sé per sempre. Ma andiamo ad analizzare quali sono state le prime “Maschere” del cinema italiano.

1. Macario, Totò e Sordi: le prime “Maschere” del cinema italiano.
Innanzitutto ci sono stati Macario e Totò, che sono, senza ombra di dubbio, le prime “vere” Maschere del nostro cinema. Il primo, Erminio Macario, inventò il personaggio di Macario, lunare, surreale, candido, che piaceva a grandi e bambini: una maschera unica e di enorme successo. La caratteristica di Macario era rappresentata dal proporsi come sintesi di personaggi tra loro distantissimi: l’attore miscelava con dovizia la maschera di Gianduia, un pò di Chaplin, qualche gag tipica dei fratelli Marx e l’ingenuità di Pierrot, rimanendo costantemente attonito e stranito al cospetto di tante meravigliose creature. Eppure sotto la maschera, vi era un attore di esemplare bravura, di grande intuito e di enorme comicità. Il tratto principale della personalità del Macario attore , forse il suo tratto distintivo, è quella espressione lunare che tutti associamo al suo nome. “Il comico caduto dalla luna” si è detto di lui, “con quella sua faccia tonda, quel riccioletto, quel viso a uovo- un uovo dipinto, pasquale- e quella bocca larga e quel tremulo sgambettare, una vera e propria maschera insomma”. L’elogio del celebre regista Alberto Bevilacqua, conta a capire l’importanza della Maschera di Macario nel nostro cinema: “Una maschera scenica, in genere, non ha invenzioni che superino se stessa; mentre le invenzioni di Macario, paradossali, surreali, ben affondati nella saggezza popolare, obbligano lo spettatore a un sentimento della vita assai più arioso delle limitate tavole del palcoscenico. Macario fu gnomo, elfo, un personaggio fiabesco, con quella faccia a uovo si sarebbe collocato felicemente tra gli scudieri alati e tra i buffoni di Versailles”. Un personaggio, dunque, quasi d’altri tempi, ma con una comicità delicata, valida ancora oggi. Se Macario è grande attore, è anche grande maschera, una maschera che si sviluppa da un bagaglio di esperienze che lo hanno portato a scegliere coscientemente di interpretare un personaggio che ha finito per fondersi definitivamente con l’attore che lo ha creato, esattamente come capitato all’amico Totò. C’è un film, che delinea alla perfezione la caratteristica del personaggio-Macario, quello dove la Maschera si compie in maniera più preponderante, ed è “Il chiromante”(1942), in cui la dimensione favolistica, fiabesca, si fonde perfettamente con le prerogative comiche e psicologiche della Maschera creata dall’attore torinese. Qui Macario interpreta un personaggio che già nel nome dichiara tutta la sua ingenuità e dolcezza: Candidetta Candido del fu Immacolato. Segno evidente che il comico ha ben chiaro in mente quali siano gli aspetti del suo personaggio che di volta in volta deve mostrare. Nel film è un garzone di una giostra di cavalli ( la giostra è un elemento ricorrente nelle favole, ed anche nelle pellicole interpretate da Macario ), che si trucca da chiromante per salvare la pelle e s’innamora di una giovane fioraia rapita da una banda di falsari. Con l’aiuto dei suoi amici, una banda di ragazzini, con cui vive, sgominerà la gang, liberando la fanciulla. Macario è dunque, uno splendido e stralunato eroe di periferia, candido di nome e di fatto. E’ memorabile nel tratteggiare con delicatezza il suo personaggio alla Charlot, dando al film un tocco di surrealismo romantico. Quasi un assaggio di quel che farà con il capolavoro della sua carriera cinematografica de “Il monello della strada”, qualche anno più tardi, e dove ritorna nuovamente l’elemento favolistico, il luna-park e il rapporto con un ragazzino orfano, che finirà per adottare. Inevitabile poi, il classico happy-end, che in una favola che si rispetti non manca mai. E poi c’è Totò. Che giunse al successo cinematografico, qualche anno dopo rispetto all’amico Macario. Quella di Totò, è probabilmente la Maschera cinematografica più famosa del cinema italiano. Il Principe De Curtis, la utilizzò anche come nome d’arte, ed è proprio come se fosse una sua seconda personalità. Il Principe non amava tanto il suo “Totò”, ma sapeva benissimo che era il suo personaggio il fautore del suo successo cinematografico. Il Principe De Curtis, cessava di essere Totò appena interrotto il set e riprendeva ad essere Totò, appena c’era il “ciak, si gira”. In una intervista televisiva del 1965, Totò si sdoppia in due, è prima intervistato nel salotto della sua casa, elegante, austero e composto come sempre; mentre nella seconda parte interpreta la sua “Maschera”, che è rilegata in cucina dal suo padrone a preparare il pranzo, si fa trovare in abiti da cuoco, mentre è intento a tagliare le verdure. D’altronde il termine “Maschera” è un termine di finzione, ragion per cui, è un altro io dell’attore che necessariamente nella vita reale non gli corrisponde. Così Macario, era in palcoscenico un serio e meticoloso capo-comico; e Sordi non era il furbone della commedia all’italiana, in cerca di un “posto” al sole, a discapito del prossimo. La Maschera di Totò ebbe un successo travolgente, basti pensare agli oltre 40 film che portano il nome di Totò fin dal titolo. Il trionfo del Totò-personaggio inizia subito dal dopoguerra, quando la maschera che aveva calcato i palcoscenici di tutta Italia, alla fine degli anni ’40, diventa il più popolare personaggio dello schermo. Dalla fine degli anni ’40, almeno fino a tutti gli anni ’50 i cinema dove si programmano i suoi film hanno solo posti in piedi e il pubblico fa ressa al botteghino. Si ride per le sue caricature e per il suo sarcasmo bonario, per come prende in giro i potenti e per il suo anarchismo liberatorio. Insomma Totò piace perché è il modello di un eversivo e moderno Pulcinella, che sbeffeggia il potere, con battute maliziose e audaci, in cui il pubblico vi si riconosce. In questo senso il personaggio di Antonio La Trippa, nel film “Gli Onorevoli”(1963), ne è uno dei più fulgidi esempi. Quì smaschera le magagne e le prese in giro di tutta una classe politica nei confronti dei poveri cittadini, mentre sta svolgendo l’ultimo comizio prima delle elezioni. O ancora, il film principe, per capire la grandezza di Totò, è “Totò a colori”(1952), con la celeberrima scena dell’aggressione all’onorevole nel wagon lit ( “Chi non conosce quel trombone di suo padre” che si conclude con il celeberrimo “ma mi faccia il piacere” e dove ci sono battute entrate nel mito come “Io sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo” oppure “ogni limite ha una pazienza”). Se Totò è dunque, un eversivo Pulcinella, Alberto Sordi viceversa è l’evoluzione di Arlecchino, servo sciocco e perciò in qualche modo complice del potere. Sordi è la “Maschera” dei vizi e dei peggiori difetti dell’italiano medio degli anni ’60. Complice, colluso con il Potere suo malgrado, tutto ciò per ottenere un minimo di rilevanza sociale, per tentare di scalare gli strati della società. In ciò Sordi è stato fantastico, proprio nella scoperta che gli italiani amavano sentir parlare dei loro difetti, delle disfunzioni del loro sistema, delle bugie dei loro manuali di storia e di altri argomenti scomodi o imbarazzanti, a patto però di poterci ridere sopra. Dunque Sordi è la “Maschera” dell’italiano medio del boom economico, del miraggio del benessere economico e del consumismo ad ogni costo che esso ha generato. “Il vedovo”, “Il vigile”, “Il moralista”, “Il marito”, “Tutti a casa”, “Una vita difficile”, “Il medico della mutua”, sono tutti film in cui la cinica “Maschera” di Sordi, brilla più che nelle altre pellicole, con una pregnanza sociologica assolutamente perfetta.



2. Tino Scotti: la Maschera bizzarra del cinema italiano
Siamo negli anni ’50, ed è giunta l’ora di parlare di un’altra “Maschera” molto importante, che ha fatto la fortuna del nostro cinema. Ovvero quella di Tino Scotti, meno incisiva di quella di Sordi; meno popolana di quella di Totò, meno lunatica di quella di Macario. Eppure stilisticamente è una delle più curiose e complesse. Una “Maschera” che si sdoppia addirittura in due personaggi, destinati a segnare il successo del grande Tino Scotti: il cavaliere con il famoso motto “ghe pensi mi” ed il bauscia, emblemi di una milanesità agli antipodi. Se il secondo era uno sbruffone, il primo impersonava il ruolo del gigolò assennato: entrambi erano però lo specchio della personalità dell’attore, di gran classe e mai volgare. Dotato di una memoria eccezionale e di una fantastica capacità oratoria, si contraddistinse per la velocità e la precisione delle sue parlate, sempre convulse e frenetiche, ma mai incomprensibili. Per questo motivo, venne benevolmente soprannominato Tino “Scatti”. Stilizza perfettamente l’essenza della milanesità con le sue bizzarre interpretazioni del bauscia/ragioniere/ commendatore simpatico, cialtrone e inconcludente ( “Ghe pensi mi!”- Ghe, nome; Pensi, cognome; Mi, targa Milano”). Schizzato ed elegante, incanta lo spettatore con battute lanciate a velocità supersonica e mossette da crisi nervosa, con tanto di occhi roteanti. Il più bizzarro artista dello spettacolo e del cinema italiano, ma nello stesso tempo, nonostante la frenetica parlantina, l’attore più vicino ai grandi attori del muto, come movenze fisiche e visive. Tino Scotti comincia come disegnatore ma trova presto grandi consensi come attore di varietà. Accanto ai più grandi attori del suo tempo si dimostra sempre all’altezza della situazione. Canta, balla recita, si muove in modo eccentrico creando nei dettagli i suoi personaggi proprio come nei fumetti grazie ai suoi studi. Attore colto,Tino Scotti è la parlantina perfetta punteggiata dal corpo sciolto dell’eccentrico. La maschera precisa che mitraglia il pubblico di parole, fatti e conclusioni impossibili. La proverbiale memoria al servizio di un caratterista di talento. La classe contrapposta alla volgarità.La frenetica attenzione al tempo della battuta, la grande dedizione per il dettaglio. Grande protagonista del varietà in teatro, nel cinema, alla radio.Tino Scotti è dunque, il clown del cinema italiano. E’ Fellini lo rende immortale nel 1970 includendolo nel suo celebre film “I Clowns”(1970). Ma il film, da segnalare per tesaurizzare il talento unico al mondo di Tino Scotti e dalla sua bizzarra “maschera”, è la pellicola intitolata “E’ arrivato il cavaliere”(1950). Una commedia deliziosa e stralunata, tutta incentrata sulle sue assurde gestualità e sui strampalati giochi verbali, con uno scoppiettante Tino Scotti, sempre magnificamente sovra-eccitato, iperattivo e quasi sempre, volutamente, sopra le righe.

3. Il Maliardo del cinema italiano: Carlo Dapporto
«Rimango talmente impressionato dalla lettura di un libro giallo, che quando lo rimetto a posto cancello sempre le mie impronte digitali». È una delle mille e più battute che Carlo Dapporto ha dispensato al folto pubblico di ammiratori durante la sua strepitosa carriera in televisione, nel cinema e nei teatri di tutta Italia, con quell’aria inconfondibile da “maliardo” (come gli piaceva definirsi): capelli imbrillantinati, sguardo ironico e seducente da consumato viveur, mimica da scettico irriducibile, cadenza squisitamente francese, parlata sempre carica di doppi sensi, abbigliamento impeccabile in completo scuro, quando non splendidamente candido, di un’eleganza senza pari, con cilindro, papillon, guanti, bastone e monocolo all’occorrenza. «Son io /», cantava, «che col monocolo nell’occhio, / men vado tra la folla ultramondana: / le donne uso aggiogar tutte al mio cocchio / con questa mia guardata ardita e strana, / ma se non han baiocchi non le guardo… / et le voilà, son qua: / sono il maliardo!». Dapporto nacque a Sanremo il 26 giugno 1911 da Giuseppe, che faceva l’umile mestiere di ciabattino («La mia era una famiglia malestante», rimarcherà in varie occasioni), e dalla madre Olimpia Cavallito, una casalinga originaria di Asti che, con la sua parlata, gli trasmetterà quella cadenza un po’ strascicata, tipicamente piemontese, utilizzata poi dall’attore in vari sketch, e soprattutto nella caratterizzazione del suo celebre e ruspante personaggio, Agostino “dal baffo assassino”, protagonista di molti spettacoli e di alcuni esilaranti spot pubblicitari nella popolare trasmissione televisiva Carosello. «Conosci mio zio Adelmo?», raccontava Dapporto-Agostino in una memorabile scenetta. «Ma sì che lo conosci: è quello che faceva il domatore al circo. Metteva sempre il braccio destro nella bocca del lione… Lo chiamavano “l’intrepido”. Un giorno, zac!, è successa la disgrassia… Da allora lo chiamano “il mancino”». I suoi personaggi stupiscono il pubblico con un infinito repertorio di doppi sensi, incentrati sul comune senso del pudore. I più famosi sono stati essenzialmente due: quello del “Maliardo”, raffigurazione grottesca del viveur dannunziano impomatato e in frac con l’occhio sempre rivolto a Montecarlo, e quello della macchietta regional popolare: l’ingenuo “Agostino”, che parla e storpia in piemontese, personaggio che, oltre ad aver portato con successo in teatro, rese protagonista di alcuni spot televisivi per la trasmissione televisiva Carosello. I film più importanti da tesaurizzare per ammirare le Maschere inventate e portate al successo da Carlo Dapporto sono essenzialmente i seguenti: “Il vedovo allegro”(1948), “Ci troviamo in galleria”(1953), “Viva la rivista”(1953) e “Giove in doppiopetto”(1955), il suo grande capolavoro.

4. Franchi & Ingrassia: le Maschere della parodia
Per trovare una sorta di “rinnovamento” nel panorama delle “maschere” cinematografiche nazionali, bisogna aspettare gli anni ’60, quando sale alla ribalta la premiata ditta composta da Franco Franchi & Ciccio Ingrassia. I due attori in breve tempo diventano la coppia comica più importante e prolifica della storia del cinema italiano. Franco e Ciccio sono due maschere comiche che affondano le loro radici nell’humus culturale siciliano, intriso di parodia e ironia popolare. La parodia siciliana è la rivincita del povero sul ricco e sul potente, manifestazione di festa e di felicità, un mezzo singolare di espressione culturale. La parodia è egualitaria, vuol dimostrare che tra gli uomini non ci sono differenze, espone un discorso comico facilmente comprensibile e di immediata fruizione. I due comici sono dei falsi cialtroni, dei finti tonti, capaci di prendersi gioco dei potenti ( che mettono alla berlina) e dei miti del cinema ( che rifanno in parodia), ridendo di tutto con umorismo semplice e genuino. Franco e Ciccio sono due clown amati dal pubblico e disprezzati dalla critica, forse proprio perchè la loro comicità è legata ad un genere poco capito come la parodia. La coppia sicula non interpreta parodie perchè vanno di moda o perchè garantiscono incassi sicuri, ma perchè è il loro modo di essere attori, la loro comicità si forma su quel tipo di cultura popolare. Il cinema italiano conosce la parodia grazie a Totò, Macario, Raimondo Vianello, Ugo Tognazzi, Walter Chiari, ma l’arrivo sul grande schermo di Franco e Ciccio sconvolge gli schemi e imposta il discorso parodistico in termini ben più radicali. Franco e Ciccio sono la parodia al cinema, due attori capaci di far regredire il pubblico allo stato infantile del divertimento. La parodia è il loro mondo, il loro brodo primordiale, l’humus dove crescono e si trovano a proprio agio, attingendo alla tradizione greca e latina, ma più direttamente agli antenati siciliani. La loro comicità è parodia che si basa su un linguaggio popolare, che comunica con lo spettatore attraverso il linguaggio diretto del corpo. Il grottesco e l’ironia sono lo stile della loro comicità, portando verso il basso ogni modello e trasformandolo in parodia. Le loro stesse figure sono grottesche: alto e dinoccolato Ciccio, piccolo e con il volto di gomma Franco, pieni di gesti espressivi che spingono alla risata grassa e di smorfie inusuali nel cinema alto. Il loro linguaggio comico è grottesco, perchè basato sul malinteso, sul qui pro quo, sull’ignoranza crassa esibita dal comico. Le maschere di Franco e Ciccio sono quelle di due personaggi inadeguati ad ogni situazione che nella vita vogliono solo cercare di farla franca nel modo migliore possibile, senza capire la realtà che li circonda. La parodia dei due comici va incontro al popolo. La comicità della coppia deriva dalla commedia di Plauto, dalla poesia e dai canti popolari, dalle carnescialate ( canti di carnevale), dall’opera dei pupi ( burattini siciliani), dai cartelli e dalle pasquinate ( aneddoti del popolo contro il potere), da tutto il teatro popolare condito di improvvisazione farsesca. La poetica di Franco e Ciccio è la poetica del cialtrone, perchè indossando due maschere- che sono due stereotipi comici- si comportano da veri cialtroni e mostrano un mondo alla rovescia. Franco e Ciccio sono due attori che recitano a braccio, partendo da un canovaccio precostituito, ma basano la loro comicità sull’improvvisazione. Sono dotati di grande inventiva, si passano le battute, rispettano i tempi senza sbavature, secondo la lezione del cinema muto che prevedeva gag genuine, immediate, estemporanee, a base di torte in faccia e bucce di banana. Sono attori ma anche autori dei loro film e delle scenette televisive che interpretano, perchè leggono il copione, lo provano, infine improvvisano e arricchiscono la sceneggiatura. Il grande successo di Franco e Ciccio si deve alla parodia, ma anche al loro modo di essere comici naturali, genuini e popolari. Il loro umorismo mimico fatto di lazzi, smorfie, calembour verbali, malintesi a non finire è perfetto per un pubblico di poche pretese, ma con il passare del tempo conquista tutti. Franco e Ciccio sono il teatro di strada che conquista cinema e televisione, due comici spontanei che mandano in visibilio platee di ragazzini e di gente più grande, due fantastici attori che giocano a fare i cialtroni. Disse dei due il grande Federico Fellini: “c’è più Italia in un film di Franchi e Ingrassia che in tutte le commedie all’italiana”. Questo perchè Franco e Ciccio descrivevano il popolo, il popolo delle piazze, il popolo inadeguato di fronte ai potenti, ma che si misura con i potenti, il pubblico dunque, vi si rispecchiò e ne decretò il trionfo. Il cinema comico italiano degli anni ’60 si chiamò Franchi & Ingrassia, e da soli rappresentarono il 10% degli incassi di Cinecittà, nel solo decennio 1960/69.

5. La Maschera di Fantozzi
E poi arrivano gli anni ’70, e da questo momento in poi, la “maschera”, prima appannaggio di pochi grandi, si diffonde, proprio perché il cinema diventa più stereotipato, più identificabile, più inquadrabile in pochi generi. C’è il cinema d’autore ( poco visto), la commedia all’italiana e la commedia popolare ( molto vista), che si arricchisce di “maschere” popolari, destinate a segnare il cinema italiano dagli anni ’70 in poi. Quella di cui mi accingo a parlare, è l’esempio di una “maschera” che nasce dal personaggio di un film, ma che ebbe talmente tanto successo da rimanere letteralmente incollato addosso all’attore che l’ha impersonata, diventando forse più conosciuta del suo interprete. Stiamo parlando della maschera del ragionier Ugo Fantozzi, straordinariamente interpretato da Paolo Villaggio, in dieci pellicole, dal 1975 al 2000. Il capolavoro creato da Paolo Villaggio, fu all’epoca qualcosa di impensabile a priori, il “rag. Fantozzi Ugo” si è imposto immediatamente come lo splendido protagonista di un’Italia maldestra e ingorda, servile e ipocrita, disposta a tutto pur di non dispiacere ai propri superiori e disperatamente incapace di godere di quei simboli del benessere che insegue con altrettanta disperata determinazione. Al cinema il personaggio di Fantozzi esordisce il 27 marzo 1975, e da allora è diventato il personaggio cinematografico più famoso del nostro cinema. Villaggio inventa soprattutto un nuovo tipo di comicità, basata sull’iperbole e sul paradosso, grazie ai quali gioca a far esplodere il banale punk quotidiano in quadretti e piccoli episodi di surreale e tragicomico divertimento. Nasce così una nuova maschera, quella di Fantozzi ( la più importante, e l’unica veramente originale nella comicità italiana degli ultimi cinquant’anni) in cui si posso sentire molte influenze letterarie ( il travet francese, la lezione russa di Gogol e Cechov) e cinematografiche ( il delirio sadomaso dei cartoon e le invenzioni surreali di Frank Tashlin, grande regista e scrittore americano), ma che si distacca dalla tradizione nazionale, aggiornandola e caricandola di tutte le valenze negative di un’Italia che vuole stordirsi con il proprio raggiunto benessere. Fantozzi è servile come lo sa essere solo il piccolo-borghese, terrorizzato dai superiori, complessato, timido, vittima naturale dei mass-media, del consumismo e della pubblicità televisiva, tragicamente incapace di adeguarsi ai modelli sociali che mitizza quotidianamente. Nonostante una netta predilezione per la comicità visiva su quella verbale ( Fantozzi parla poco, e caso mai nell’impersonale e proverbiale terza persona-equivalente del cinematografico “fuori campo”- per commentare le proprie disavventure), Villaggio ha saputo inventare anche un lessico particolarissimo, sospeso tra l’astrazione metaforica e le degenerazioni burocratiche, entrato immediatamente nel patrimonio comune degli italiani ( con espressioni come “megagalattico”, “grand uff. cav. lup. mann.”, “salivazione esagerata”, “spigato siberiano”, “mi ripeta la domanda”, “ma se ne vadi”, “com’è umano lei”). Villaggio, ha saputo inventare, con sagace e tempestiva intuizione, questa maschera paradossale, grottesca e surreale, questo personaggio quasi da cartoon, che ha saputo conquistare il pubblico di tutte le generazioni fin dalla prima inquadratura. Accanto a Paolo Villaggio, perfetto come non lo sarebbe stato nessun altro, nel ruolo che lo ha issato per sempre tra le leggende del cinema italiano, una serie di attori che ritorneranno anche nelle successive avventure e che hanno contribuito non poco al successo del film, co-protagonisti della saga e di eccelsa bravura: Gigi Reder straordinario, nei panni dell’occhialuto ragionier Filini; Anna Mazzamauro come riccioluta signorina Silvani e sogno erotico di Fantozzi; Giuseppe Anatrelli nelle vesti del subdolo geometra Calboni; Plinio Fernando in quelli della mostruosa figlia Mariangela.

6. Gli anni ’80: si sviluppa definitivamente il ruolo della Maschera.
Negli anni ’80 la commedia all’italiana si trasforma, e avviene il tanto atteso passaggio di consegne, o meglio cambio di generazione, tra “i mostri della commedia all’italiana” e le “nuove leve”, composte da Lino Banfi, Jerry Calà, Christian De Sica, Renato Pozzetto, Enrico Montesano, Tomas Milian e Diego Abatantuono. Ognuno a modo suo è una “maschera” e ognuno a modo suo ha il proprio grande momento di gloria. Il primo della lista, ovvero Lino Banfi, proveniva dalla commedia sexy degli anni ’70, dalla quale si distaccò, virando decisamente verso la “nuova” commedia all’italiana degli anni ’80.E’ in questo decennio che, cinematograficamente parlando, Lino Banfi interpreta i suoi massimi capolavori comici, quelli maggiormente ricordati e amati ancora oggi. E non solo. E’ in questo decennio che l’attore pugliese mette a punto la propria “Maschera”, la “Maschera” di un vero e proprio artista della commedia, poichè ha inventato di sana pianta un genere, un personaggio, dei modi e una intera situazione socio-culturale tipica di una grossa fetta d’Italia, in maniera molto simile a quello che fece Alberto Sordi negli anni cinquanta e sessanta. E’ lui l’italiano medio degli anni ’80, vent’anni dopo Sordi. La sua è una comicità inusuale, del tutto personale, che si avvale di detti, modi di dire e giochi verbali, contaminati qua e là dal dialetto pugliese. Una comicità irruente e arricchita da una parlata buffa e originale. Ha lavorato con tanti registi definiti “alti”, come Luciano Salce, Fernando Di Leo, Nanny Loy, Steno e Dino Risi. Eppure per capire meglio l’essenza della sua comicità, veracemente meridionale, pugliese, ha sempre portato la sua regione nel cuore, val la pena nominare 6 film, quelli che più compiutamente realizzano il suo stile comico, popolare, stravagante e a tratti scatenato. “Cornetti alla crema”, Vieni avanti cretino”, “Al bar dello sport”, “Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio”, “L’allenatore nel pallone” e “Il commissario Lo Gatto”. I film selezionati, tutti della prima metà degli anni ’80, rappresentano le vette cinematografiche dell’attore pugliese e della sua “Maschera”, così popolare da essere amata un pò da tutti e da essere in grado di fare di queste pellicole dei veri e propri “cult movie”. Il personaggio di Oronzo Canà, da “L’allenatore nel pallone”, allenatore della Longobarda, è il personaggio che più di tutti gli altri è rimasto nella memoria colettiva.

Quello di questi anni è un tipo di cinema che assumerà il nome di “cinema popolare anni ’80” e nel decennio successivo di “cinepanettone”. Questo neologismo, originariamente coniato in senso dispregiativo dai critici cinematografici per indicare un prodotto comico di grande diffusione pubblica, si caratterizzavano per una certa tendenza a ripetersi nella trama e nelle situazioni, per il tipo di comicità a buon mercato, per la simpatia dei suoi interpreti, nonché per i grandi incassi nelle sale italiane. C’è però una differenza sostanziale, tra il cinema popolare anni ’80 e quello denominato dei cinepanettoni: una certa malinconia di fondo avvolge le pellicole anni ’80, una certa nostalgia fa da contorno alle trame, sia al mare, che in qualche rinomata località di montagna. In ogni caso si badi bene, entrambe le formule, quella del “cult anni ’80” e della successiva trasformazione in “cinepanettone” sono forme di comicità brillante e demenziale, demenziale e non demente, come qualcuno tende a confondere: una cosa è la comicità demente, becera e fine a se stessa, e una cosa la comicità demenziale, che è un genere a se, anche di difficile realizzazione, il quale era nato con la coppia Franchi & Ingrassia e si era poi sviluppata con la commedia sexy all’italiana di fine anni ’70. E quando si parla di malinconia, di “cult-movie anni ’80”, non si può non parlare di Jerry Calà e della sua “maschera” accattivante e pruriginosa. Il suo nome rimarrà infatti legato indissolubilmente ai cult movie anni ’80 e ’90, con alcuni tormentoni da lui creati, rimasti nella memoria collettiva: “Libidine”, “Doppia Libidine” e “Libidine…coi fiocchi”. Energia indomabile, parlata inconfondibile e faccia da simpatica canaglia: Jerry Calà, icona del cinema comico italiano e di un periodo dorato, gli anni ’80, continua ancora a coinvolgere e divertire il pubblico giovane e meno giovane, in una riscoperta del cinema popolare, che oggi avvolge la critica specializzata. Alcune tra le pellicole con protagonista Jerry sono divenute col tempo dei piccoli cult, per via dell’intensità e dei tormentoni creati dallo stesso Calà. E ancora “Non sono bello, ma piaccio!“. Basterebbe questo iper-tormentone per riportare alla mente Billo, il pianobar sciupafemmine del primo “Vacanze di Natale”(1982) ed anche il Luca, riccone figlio del “cumenda”, di “Sapore di mare”(1983), dove un Jerry in forma smagliante si esibisce anche in malinconiche performance canore: celebre Calà che canta la hit “Sapore di sale” di Gino Paoli. Almeno una menzione meritano gli “Abbronzatissimi” ( 1 e 2) di Bruno Gaburro, rispettivamente del 1991 e del 1993, una sorta di epigono del filone vacanziero e quasi un remake di “Sapore di mare” dieci anni dopo. Così, per chiudere il discorso riguardo Jerry Calà, che del cinema popolare degli anni ’80, ne è un pò il massimo simbolo.

Ma dai “Sapore di mare” e dai “Vacanze di Natale”, dei fratelli Vanzina, ne nasce anche un’altra “maschera” destinata a rimanere nella memoria collettiva, ovvero quella del seduttore incallito, un pò traditore, un pò fanfarone e un pò vigliacco. Il suo interprete è Christian De Sica, che ereditando e utilizzando le gestualità mimiche del padre Vittorio, e la cialtronaggine della “Maschera” inventata da Sordi, si pone come il seduttore, dal tradimento facile del nuovo millennio. E’ la cifra del suo successo e della sua “maschera” audace, veracemente romana e ricca di doppi sensi. Ma “Maschera” cult e di enorme successo è anche Tomas Milian, protagonista di svariati film polizieschi all’italiana, a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Il suo nome di attore è spesso identificato con due personaggi. Il primo, Nico Giraldi, è un maresciallo (dal 1981 ispettore) di polizia, romano dai modi poco garbati, ma efficaci, che conosce bene gli ambienti malavitosi avendone fatto parte in gioventù col soprannome de “er Pirata”. Il secondo, Sergio Marazzi alias er Monnezza, è un ladruncolo romano. Va altresì nominato anche un altro grande attore, che faceva della “maschera” il mezzo per sfondare nel cinematografo. Lui è un altro dei grandi attori brillanti del periodo, che nel futuro non di rado si cimenterà nel genere impegnato e con risultati più che ottimali, ovvero Diego Abatantuono. Il debutto sul grande schermo recita 1982: e sarà un debutto col botto. Con il cult movie “Eccezzziunale…veramente”(1982), Diego Abatantuono mette a segno uno dei suoi maggiori successi di sempre, riuscendo anche a creare lo spaccato di un Paese che è già lontano anni luce da quello reale: un’Italietta sottoproletaria e piccolo-borghese, cialtronesca e naif, dotata di una virilità incosciente e genuina. La classe comica impeccabile di Abatantuono ha saputo creare icone, modi di dire e tormentoni irresistibili ancora oggi rimasti nell’immaginario popolare, alla stregua di un grande comico. Per concludere il discorso sulle “maschere” del cinema italiano, vanno almeno citati infine, Enrico Montesano e Renato Pozzetto. Il primo porta al cinema la “maschera” dell’innocenza, un pò modellata sull’eredità di Macario, un pò sulla popolaresca comicità romana, fatta di giochi di parole e battute salaci. Pozzetto invece, è l’ingenuo contadinotto di provincia che giunge sprovveduto di fronte alle insidie della grande metropoli. Per lui il film da tesaurizzare, è “Il ragazzo di campagna”, che rimane il capolavoro della sua “maschera” comica. Una maschera surreale, dotata di uno stile comico semplice ma, al tempo stesso, originale e poetico, che ha segnato il successo dell’attore Renato Pozzetto, il quale è oggi uno degli attori più noti della comicità italiana.


7. Il cinema dei giorni nostri: le Maschere di Antonio Albanese.
Antonio Albanese, classe 1964, è ad oggi uno degli attori italiani più apprezzati della cinematografia italiana contemporanea. Vuoi per il suo indubbio talento poliedrico, capace di spaziare dal comico al drammatico, sempre con risultati memorabili; vuoi per la sua duttilità interpretativa, per la sua umanità e per la stima incondizionata che Albanese gode nell’ambiente cinematografico. Stupendo inventore di numerose “Maschere” comiche, che hanno avuto chi più, chi meno, la loro consacrazione cinematografica, ha lavorato con i più importanti registi “impegnati” del cinema italiano attuale: Carlo Mazzacurati, Pupi Avati, Giovanni Veronesi, Silvio Soldini, Francesca Archibugi, Gianni Amelio. Molto apprezzato dalla critica, anche per aver sempre rifiutato di partecipare ai cosiddetti “cinepanettoni”, dimostrando di voler puntare ad un tipo di cinema più “alto” e personale, anche quando si immerge in pellicole spiccatamente comiche, e in cui fuoriesce il lato più surreale e paradossale della sua maschera. Attore dai mille volti, la luminosa carriera di Antonio Albanese, celebrata da televisione, cinema e teatro, è quanto di meglio un artista italiano potrebbe chiedere. Ma il merito va tutto allo straordinario sodalizio con la comicità che sembra aver scelto il suo volto per esprimersi in tutta la sua allegria. E’ stato inventore e interprete di personaggi strampalati e paradossali, spesso riproposti anche sul grande schermo: il gentile Epifanio nel film “Uomo d’acqua dolce”(1997), l’ingegner Ivo Perego nel film “La fame e la sete”(1999), il telecronista-ballerino pugliese Frengo, riproposto nel film “Tutto tutto niente niente”(2012); e soprattutto il paradossale politico calabrese corrotto, Cetto La Qualunque, protagonista della dissacrante pellicola “Qualunquemente”(2011) e del suo seguito “Tutto tutto niente niente”(2012). Antonio Albanese dimostra di avere ironia e intelligenza, una spanna sopra gli altri artisti del periodo percorrendo vie “stranamente nuove”, e proponendo una comicità surreale e grottesca. L’unica vera Maschera dei giorni nostri, anzi Albanese è una miriade di maschere, è il comico della Maschera, ma anche eccezionale attore drammatico.

8. Oltre la “Maschera” c’è di più.
“Maschera”, ma dietro la maschera c’è di più. C’è la grandezza di tutti questi artisti, che quando si sono cimentati nel cosiddetto cinema d’autore, si sono resi capaci di interpretazioni sublimi, in grado di spiazzare la maggior parte della critica, che ha sempre visto il ruolo della “maschera”, come un becero esempio di stile recitativo. Niente di più sbagliato. Quello della “maschera” è un livello recitativo non da tutti, da grande capo-comico, da grande attore. D’altronde tutti gli artisti sopracitati, hanno avuto modo di dimostrare il loro indiscutibile talento, anche nel cosiddetto “cinema d’autore”. Da Macario a Franco & Ciccio, da Lino Banfi a Jerry Calà, da Renato Pozzetto ad Antonio Albanese.
Domenico Palattella