
Ricordare gli anniversari di nascita o di morte di personaggi rimasti nella memoria collettiva, non è soltanto un mero esercizio mnemonico fine a se stesso, ma è la maniera per non dimenticare, è la maniera per tenere viva la memoria di chi ci ha reso grandi. A UGO TOGNAZZI, noi dobbiamo tanto: la sua sensibilità, la sua grandezza e il suo talento, hanno attraversato la storia del ‘900 cinematografico nazionale. Il 27 ottobre del 2020 ricorrono i 30 anni dalla sua morte. Ma Tognazzi è ancora quì con noi, perché i grandi personaggi non muoiono mai, perché lo scorrere imperioso del tempo, non li scalfisce, anzi li indora ancora di più.
Questo omaggio accorato spazia tra foto che rappresentano momenti significativi della sua carriera cinematografica, e testimonianze di chi lo ha conosciuto: colleghi, registi e amici. L’occasione insomma, di ripercorre, in maniera inusuale la vita, i successi e le passioni di uno dei più importanti artisti italiani del ‘900.
Ugo Tognazzi nasce come cabarettista di avanspettacolo e raggiunge la notorietà come comico televisivo in coppia con Raimondo Vianello. Il suo debutto cinematografico è datato 1950 con il film “I cadetti di Guascogna”(1950) e in 40 anni partecipa come attore a ben 150 film. Molti titoli divertenti, ma leggeri si affiancano a pellicole e prove davvero notevoli soprattutto nella commedia all’italiana di cui è stato uno dei volti simbolo.


“Credo di avere recitato insieme a Tognazzi una volta sola, in occasione di “Nell’anno del Signore” di Gigi Magni dove io avevo la parte di un frate e lui quella di un cardinale (ricordo una scena in cui lo aiutavo a vestirsi con i suoi abiti sfarzosi), mentre altre volte siamo apparsi in una stessa opera senza essere in scena insieme, come ne “L’ingorgo di Comencini” e “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno” di Monicelli, ed in diversi film ad episodi. Avevo una grande simpatia per Ugo, mi toccavano moltissimo la sua bontà e la sua generosità, sono andato molte volte a trovarlo a Velletri a casa sua e mi sono accorto che se si parlava di un suo film non aveva mai problemi a fare autocritica, ma guai a toccargli il cibo che preparava per gli ospiti, guai a fargli neanche per scherzo il minimo appunto, gli sembrava un torto imperdonabile… Quando ho iniziato a fare del cinema il mio intento era quello di andare al passo con il neorealismo sociale a sfondo ironico: mi arrivavano moltissime proposte e ricordo che non potendo far fronte a tutte le richieste segnalavo ai produttori alcuni colleghi di talento e tra questi mi fecero un ottima impressione sia Tognazzi che Vianello, impegnati all’epoca in diversi film popolari. Fui molto soddisfatto quando Ugo fu scelto da Luciano Salce come protagonista de “Il federale”: il cinema fatto di personaggi veri che rispecchiavano la realtà fu subito molto apprezzato dal nostro pubblico e ognuno di noi attori di commedia di quella generazioni aveva un suo modo diverso di esprimersi e delle chiavi più congeniali: Ugo era un interprete finissimo, in grado di rappresentare personaggi stupendi e dotato di una vitalità meravigliosa, ma negli ultimi tempi sembrava che fosse prigioniero di una insolita inquietudine. Poco tempo prima che morisse, credo che fossimo nell’estate del 1990, io, lui, Gassman e Manfredi venimmo premiati insieme al Festival di Taormina, ma durante il viaggio di ritorno in aereo mi colpì il fatto che avesse un po’ la testa tra le nuvole e che si bloccasse a metà. tra la depressione e la malinconia: conoscendolo da tempo la cosa mi sembrò molto strana e mi dispiacque molto. Lo ricordo con rimpianto come una persona buona e, allo stesso modo di Gassman, capace di grandi generosità”. ( Alberto Sordi)


“Lui mi ha visto in teatro. Io stavo facendo una rivista teatrale, per la prima volta senza il comico mattatore: eravamo quattro “pseudogiovani” che facevano un corale, s’intitolava “Black & White”, Tognazzi ci vide e l’anno dopo ci volle con lui nella sua compagnia. Per un po’ noi due abbiamo fatto le “canzoni sceneggiate”, poi nel ’54 ci chiamò la Rai per presentare “Un due tre”: io avevo comprato la televisione per vedere i mondiali di calcio in Svizzera e così decidemmo di fare le parodie dei programmi televisivi, e siccome la televisione la guardavo solo io ero io che in treno, mentre andavamo a fare lo spettacolo gli spiegavo come fare la parodia di cose che lui non aveva mai visto. Si lavorava a Milano in un clima di straordinaria allegria da parte di tutti, tutti erano contenti di partecipare. Lui aveva una splendida capacità di trovare spunti comici. Arricchiva i personaggi che parodiava. Era molto istintivo e impulsivo: se ad esempio non sentiva una risata immediatamente non appena entrati in scena, cominciava subito a preoccuparsi e a guardarmi in modo interrogativo, preoccupato. In teatro rideva molto con me: avevamo un affiatamento talmente forte nel cinema, in televisione, in teatro, che stavamo sempre insieme anche dopo lo spettacolo, legatissimi anche dalla passione per il calcio. Al cinema lui si lanciò con “Il federale”, e confermò il successo con “La voglia matta”: lì ci separammo. D’altra parte lui stesso prima di “Il federale” mi aveva detto in tutta sincerità che se lo avesse girato con me avrebbe fatto un po’ il solito film comico di serie B: io gli diedi ragione e non feci il film, ma rimanemmo talmente legati che mi chiamava sempre a vedere il girato chiedendomi un giudizio. Anche dopo siamo comunque rimasti molto amici, e anche i suoi figli hanno sempre saputo che lui aveva un affetto particolare per me. Certo, ci si vedeva molto meno. D’altronde lui faceva cinema da una parte e io facevo televisione dall’altra: come si faceva a stare insieme? “. ( Raimondo Vianello)


“Quello che amavo di più in Ugo Tognazzi era il suo essere un uomo venuto decisamente dal basso, il suo avere le radici piantate nella terra. Da qui scaturiva la sua forza umana. Come quella di Anteo che Ercole non riusciva a sconfiggere perché ogni volta che appoggiava i piedi per terra da essa traeva nuova forza. Tognazzi era così, aveva una sapienza umana che non può avere chi ha un approccio dall’alto, nell’estetica come nelle cose della vita. Venivamo tutti, dopo la guerra, dal basso. Quell’evento aveva segnato il punto più basso, aveva proletarizzato lo spirito dell’intera società. Ma Tognazzi questo sentimento popolare l’aveva connaturato in sé e se ne sentiva la schiettezza. L’avvertivano le persone semplici ma anche quelle che avevano una cultura più raffinata. La sua passione per la gastronomia non aveva nulla di intellettuale, veniva anch’essa da un retroterra di fame, di necessità, di appagamento di un bisogno primario. Per questo era una passione vera. Ugo non era un comico superficiale. La sua comicità era un’elaborazione della realtà che è sempre drammatica. Lui era un comico che arrivava dalla vita e non gli era difficile ritornare al dramma. Solo chi conosce la vita può elaborarla in forma comica senza banalizzarla, mantenendo visibile sullo sfondo la sua essenza tragica. E questo Ugo Tognazzi sapeva farlo benissimo”. ( Furio Scarpelli)


“Cantami, o diva, di Ugo cremonese il multiforme ingegno. Cremona fu famosa per le tre T (tette, torrone e torrazzo). Tognazzi fu la sua quarta specialità, l’unico padano dei quattro grandi comici della sua generazione, tutti nati il 1920 e il 1922, quella dei “Colonnelli” della cinecommedia italiana (Sordi, Manfredi, Gassman), come furono chiamati negli anni ’70. Di quel quartetto fu (anzi è: i suoi film restano) il più cangiante, duttile, eclettico. Proveniente dalle pratiche alte del teatro, Gassman aveva sul palcoscenico un registro più ampio del suo, ma sullo schermo era più di lui condizionato dal fisico, dal corpo. Dei quattro era colui che aveva fatto, gradino per gradino, la gavetta più lunga e dura. Con padana tenacia, «con la sua beffarda laboriosità di formichina comica» (Claudio G. Fava), fece la sua arrampicata fino a diventare uno dei maggiori interpreti del cinema italiano. Quando era un giovane capocomico del teatro di rivista negli anni ’50, non possedeva una forte personalità e nemmeno quel marchio di fabbrica che avevano Macario, Dapporto, Rascel, Taranto per non dire di Totò. Mentre gli altri, però, con poche varianti, incarnavano lo stesso personaggio, Tognazzi seppe moltiplicarsi in tante figure con la sua faccia per metà contadina per metà borghese che ricapitola un’intera generazione di self-made men del Nord. La sua padanità longobarda gli permise di esprimere in tutte le sfumature furberia, libertinaggio, egoismo, ipocrisia, disgusto, cattiveria, ribrezzo in modi diversi dai codici mediterranei degli altri comici. Nella sua vita professionale ebbe tre grandi dolori: il distacco da Marco Ferreri dopo “La grande bouffe”; la mancata occasione del “Viaggio di G. Mastorna” che Fellini covò per anni, pensando a lui, in alternativa a Mastroianni; l’insuccesso di “La tragedia di un uomo ridicolo” di Bertolucci che avrebbe sancito il suo passaggio ad attore drammatico. Era un uomo che amava vivere, e godersi la vita: accanitamente fornicava con tutti e cinque i sensi. Secondo Stefano Reggiani, la sua filosofia di vita era: siate soli con l’anima e mangiatori col corpo”. ( Morando Morandini)


“La prima volta che ho lavorato con lui al cinema, Ugo continuava la sua carriera teatrale parallela, e in teatro l’avevo visto per la prima volta. Una volta mi disse: «Nel varietà, tutti gli altri hanno un marchio comico: la bombetta per Totò, il cilindro per Dapporto, il riccioletto per Macario; io, no. Vedi questa faccia? Io ho solo quella: È comica la mia faccia. La mostro, e il pubblico ride». Aveva una recitazione già molto cinematografica, perché era tutta in levare, non caricaturava e non strafaceva mai. Gli capitava invece di strafare in cucina. Ugo era cuoco, ma cuoco inventore, e improvvisava a seconda di quel che aveva in casa. Una volta che doveva smaltire un’enorme mortadellona, arrivò al punto di tagliarla a fette, impanarle e friggerle come cotolette alla milanese. Ci fu un periodo di cene tra noi amici a casa sua, le chiamavamo le ultime cene dei dodici apostoli, in cui dovevamo sperimentare questi suoi piatti di nuova invenzione. Una volta qualcuno gli aveva regalato della carne di balena, lui ce la servì alla livornese: il cacciucco di balena. Villaggio aveva stabilito una lista di voti: buono, commestibile, cagata, grande cagata, grandissima cagata, e alla fine della cena infierivamo su di lui senza pietà. Ci incontrammo per lavoro, certo, e poi diventammo amici incontrandoci anche fuori, nelle sue case, a Velletri, a Torvajanica. E da un certo momento in poi, amicizia e lavoro si fusero insieme. Nessuno avrebbe potuto dire dove finiva l’una e dove cominciava l’altro. Una questione d’onore, per esempio, fu una bella avventura. Partimmo per la Sardegna senza copione, con solo una scaletta in tasca. Si scriveva ogni giorno per il giorno dopo, e veniva bene! Un’altra volta andammo a scrivere “Il gatto” di Comencini a Punta Ala, solo io, Leo [Benvenuti] e Ugo. Allungavamo il copione perché lui cucinava, e ci preparava dei pranzi prelibati. Facevamo così: chiacchierando, inventavamo la scena insieme. Poi lui se ne andava in cucina, e noi scrivevamo. Comfort massimo: avevamo a disposizione una dependance dell’albergo, una villa che faceva parte del comprensorio e, nella rada, lo yacht di Sergio Leone. Con Ugo e gli altri Age e Scarpelli, Maccari, Scola, Monicelli, Risi, Sonego, eravamo una specie di famigliastra, un gruppo di amici che lavorano, scherzano, vivono insieme. Ci incontravamo nelle case, al bar, al Caffé Greco… Nelle trattorie, per esempio da Otello a via della Croce, dove ci incontravamo ogni settimana… Certe battute che poi andavano nei film, sarebbe impossibile dire chi le ha inventate. Le ha inventate il gruppo, ecco chi le ha inventate. Questo ambiente tra famiglia, paese, quartiere, banda di amici, era un’incubatrice perfetta, per il lavoro. Adesso, non c’è più. Non c’è più neanche il lavoro, perché allora si facevano duecentocinquanta, trecento film all’anno, e oggi se ne fanno cinquanta. Allora cinque-seicento milioni di biglietti venduti, e oggi ottanta. “Amici miei” andò così. Avevamo scritto per Pietro Germi un copione di trecento pagine. Germi non avrebbe mai detto tagliamone sessanta, come poi fece Monicelli, perché a Germi gli entrava tutto. Magari si perdeva qualche effetto, ma nel quadro gli entrava sempre tutto, mai detto «questo è lungo», come invece a Monicelli capita spesso. Girano in modo diverso. Germi un’inquadratura molto piena, con una densità teatrale, profondità di campo e lunghi piani sequenza; Monicelli è più asciutto e si affida di più al montaggio, però non si perde un effetto, ed è più rispettoso dei ritmi del copione, anche perché nasce come sceneggiatore. Poi, Germi si ammalò. «E adesso chi chiamiamo?» ci dicemmo. Chiamammo Mario (Monicelli). Germi voleva ambientare il film a Bologna, perché non credeva all’umorismo toscano, mentre la storia era toscana, toscanissima: tutte quelle storie erano state vissute sul serio da amici nostri fiorentini, e noi ci dicevamo: «Se si ride noi, vedrai che ride anche il pubblico». Mario, toscano anche lui, disse: «Ma perché Bologna? Toscana è, e Toscana deve restare». I personaggi e le burle, erano tutti modellati su persone e vicende reali. II Conte Mascetti, per esempio, il personaggio di Ugo, esisteva per davvero, e veramente aveva fatto un viaggio di nozze di due anni e mezzo con la moglie e l’orso al guinzaglio, mangiandosi il patrimonio suo, quello della moglie e anche quello dell’orso. È vera anche la storia che sembra più finta, quella della banda di gangster che perseguita il vecchio e odioso pensionato. A Firenze, per un anno e mezzo, un barista, un notaio e un magazziniere tennero in piedi la burla ai danni di un vecchio come quello. Eh, erano proprio fetenti. Certo, il colore di fondo di “Amici miei” è nero, nerissimo. Mi hanno riportato che una bambina di nove o dieci anni, vedendo “Amici miei”, si è spaventata e si è messa a piangere, e dal punto di vista suo ne aveva tutte le ragioni. Degli adulti che si comportano così, a pensarci bene, non sono per niente allegri. II tema della morte, della paura della morte e delle burle che la tengono a bada è il basso continuo del film. Una volta, mentre si inventava, Leo [Benvenuti] disse: «Ma come finisce questa storia?». E io risposi: «Uno muore». E infatti, come si ricorderà, il Perotti [Philippe Noiret] prima recita la Supercazzola al prete che lo vuole confessare, poi dice agli amici: «Levatevi da’ coglioni che devo morire», si gira verso il muro e muore. No, non mi aspettavo un successo così enorme di “Amici miei”, perché un film così non era stato fatto mai. Certo, era riuscito bene, ma ce ne sono tanti, di film ben riusciti che non hanno successo. Era un film molto italiano, certo, italianissimo. Tant’è vero che a New York, dove prendeva tantissime risate in sala, per un momento pensarono di rifarlo, ma poi rinunciarono, dicendo che no, non era americanizzabile. Ugo era davvero un grande, un grandissimo attore. Ho rivisto di recente, in una copia orripilante, “La stanza del Vescovo”, che Leo e io sceneggiammo per Dino Risi dal romanzo di Piero Chiara. Tutto il racconto e tutto il film ruotano intorno all’Orimbelli, un personaggio che era difficilissimo interpretare senza farne una macchietta. L’Orimbelli è un personaggio assolutamente indecente, senza altre preoccupazioni che il suo immediato piacere, capace di tutto e buono a nulla, senza vergogna e senza spina dorsale, privo persino della dignità della cattiveria. Eppure, è a lui che devono andare tutto il nostro interesse e la nostra simpatia. E grazie a Ugo, è proprio questo che accade. Non ci deve aver fatto su dei gran ragionamenti, Ugo, perché mi disse: «Non lo dire a nessuno, ma l’Orimbelli me lo faccio tutto da fumato». E però, guardate che cosa ne ha fatto. Ne ha fatto quel che doveva essere, cioé un personaggio perfettamente sincero nella sua ipocrisia. L’Orimbelli di Ugo è un uomo totalmente fasullo che propone con totale sincerità i suoi bisogni, i suoi desideri, persino la sua fasullaggine. Perché Ugo era un attore capace d’essere insieme indecente e innocente, che è una combinazione di qualità più rara dell’uranio. Ci sono attori capaci di essere magistralmente indecenti, uno, per esempio, è Giorgio Albertazzi, e altri capaci di essere innocenti, per esempio, Renato Pozzetto. Ma capaci di essere insieme innocenti e indecenti, be’: a me non viene in mente altri che Ugo. E, come sempre, quando un attore viene, come Ugo, dalla tradizione del varietà e dunque della commedia dell’arte, nelle sue interpretazioni mette sempre qualcosa del personaggio che ha costruito intorno a se stesso. Anche nella vita, infatti, Ugo era un po’ così. Con le donne, per esempio, era un bugiardo assoluto: una volta, avendo visto comparire all’orizzonte un’amica della moglie, mi ammollò una sua ragazza dicendomi: «Piero, fa’ qualcosa!». Però, era talmente spontaneo da esser capace di parlare a una sua donna delle sue sofferenze d’amore per un’altra: e se la cavava, se la cavava sempre! Come faceva? Mah. Se la cavava perché per le donne era un uomo disarmante. Se la cavava perché era uno strano animale umano. La risposta più vicina al vero, è che se la cavava perché era lui. L’ultima volta che lo vidi fu a Parigi, un incontro veramente casuale. Era un periodo che ci si vedeva meno, perché c’era anche un po’ di stanca nel lavoro. Ero in breve vacanza con la mia famiglia e fu una delle mie figlie a indicarmelo: «Ma quello non è Tognazzi?». Stava comprando le sigarette dal tabaccaio che c’è accanto a Lipp, mi dava le spalle. Gli andai dietro e gli sparai: «Me lo farebbe un autografo, signor Bischeracci?». Si voltò, mi vide e urlò: «Non è possibile!». Stava bene, era contento perché aveva una bella prospettiva di lavoro, e stava andando a cena dall’amico Ferreri. Ci lasciammo con la promessa di rivederci presto a Roma, e forse prendemmo anche un appuntamento preciso. Una settimana dopo morì. Maledetto anche quel giorno”. ( Piero De Bernardi)


“Con Ugo siamo diventati amici, amicissimi sin verso la fine degli anni ’60 . Prima abbiamo cominciato a frequentarci spesso. Andavamo nella sua casa di Velletri il sabato sera, dormivamo lì e ritornavamo a Roma dopo pranzo; diventò un’abitudine, questa gita del sabato a casa di Ugo. Poi, siamo diventati amici nel vero senso della parola, e Ugo è entrato a far parte integrante della mia vita. Lui aveva una casa a Porto Rotondo e io anche, al tempo che in Sardegna non c’erano le folle oceaniche di adesso. C’erano anche Luciano Salce, Gassman, Renato Salvatori, e soprattutto Marco Ferreri con la sua barca, il mitico Cochecito. Insomma, è nata una buona, vera amicizia, confortata dal fatto che prima era famoso lui, poi sono diventato famoso anch’io, e tra gente che fa questo mestiere, c’è la tendenza a frequentare i pari grado. Gli inferiori fanno sempre la figura dei comprimari, dei meno fortunati, quindi devono recitare un ruolo abbastanza sgradevole. È cominciato un periodo molto divertente, per questo nostro gruppetto nel quale ciascuno aveva il suo ruolo. Ugo una cosa non sopportava nel modo più assoluto: che qualcuno gli dicesse che cucinava male. Così, appena lui diceva: «Ragazzi, oggi faccio da mangiare in barca», noi subito cominciavamo a scambiarci le occhiate di panico. Poi Ferreri andava in avanscoperta in cucina, assaggiava i piatti, e ci diceva quali non dovevamo assolutamente toccare, perché va anche detto che certe volte Ugo faceva dei piatti paradossali. era un uomo di grande tenerezza; uno che quando si innamorava partiva sempre battuto, con dei turbamenti, delle delicatezze, un’attenzione per le sfumature, che solo chi gli stava vicino ha potuto conoscere bene. Con Ugo abbiamo passato tanti momenti belli in gruppo, a ridere e scherzare con gli amici; ma anche molti momenti da soli. C’è n’è uno che mi ricordo bene, perché di lui racconta una cosa importante. Eravamo nella sua casa di Velletri, e passeggiavamo nel parco. Ugo mi mostrava gli alberi che aveva appena fatto piantare. «Visto che belli?» mi disse. «Peccato che non li vedrò crescere.» E me lo disse con serenità, con pacatezza, con un sorriso. Ugo era un uomo onestissimo, mai furbo, mai ruffiano. Amava ridere, scherzare e stare insieme agli amici ma era più chiuso di quanto non si supponesse. Difficilmente comunicava i propri stati d’animo. Ora che non c’è più io che ho diviso con lui trent’anni della mia esistenza, mi sento orfano. Ugo rideva su tutto. E su tutto esagerava trasformando ogni piccolo episodio quotidiano in una occasione di autoironia. Il fatto che a Parigi avesse perso l’aereo perché non trovava un taxi cercato lungamente diventava nel suo racconto un epico viaggio a piedi con le valigie verso l’aeroporto dove poi sfinito era caduto a dormire. Era fuori di misura, Ugo, ma in questo stava la sua forza. Se si potesse, adesso che siamo qui in tanti, tanti quanti nemmeno lui avrebbe sperato, sarebbe bello cantare per lui in coro “Come porti i capelli bella bionda”. Ma non si può. Una sola volta abbiamo parlato della morte. Gli avevo chiesto se credeva nell’aldilà. Aveva risposto di crederci con fatica. «Non so cosa ci sia nell’aldilà, Ugo, ma so che te la caverai.»
Sul registro della camera ardente: «Ciao, Ugo, ci vediamo dopo.» ( Paolo Villaggio)


“Ho iniziato la mia carriera di attrice nel 1961 grazie al mio primo film di un certo rilievo, “Il federale” di Luciano Salce, di cui Ugo era il protagonista. Lui si dimostrò subito una persona familiare, gentile e disponibile e mi proteggeva dagli eccessi di attenzione degli altri. Io gli leggevo sempre il mio diario e lui si divertiva moltissimo e diventammo subito amici. Ho ritrovato Tognazzi su un set quattro anni dopo in occasione di “Io la conoscevo bene” di Antonio Pietrangeli, di cui ero la protagonista. Ugo interpretò un numero d’attore strepitoso, quello del guitto che ballava come un forsennato in una festa rischiando l’infarto per compiacere un divo di successo ed i suoi cinici e beffardi amici del mondo del cinema: fin da quando ne fui testimone sul set capii che si trattava di una sequenza pazzesca, non ho mai visto al cinema niente di così potente, penso che meritasse l’Oscar. In seguito, nel ’67, ho ritrovato Ugo quando ero un po’ cresciuta sul set de “L’immorale” di Pietro Germi, la storia di un uomo che aveva una moglie, un’amante ed una ragazza molto giovane, che era l’unica a disertare il funerale, da lui immaginato e temuto. Ricordo ancora il nome del mio personaggio: Marisa Malagugini, una violinista di provincia. Poi ho lavorato molto piacevolmente accanto a lui ne “La terrazza” di Ettore Scola, su un set dove eravamo riuniti ogni giorno almeno venti attori, e ancora in “Dove vai in vacanza”, nell’episodio “Sarò tutta per te”, diretto da Mauro Bolognini. Nella finzione Ugo era un marito innamoratissimo che al dunque non riusciva a fare l’amore con me che interpretavo l’ex moglie di quest’uomo, una donna piuttosto dura ed energica che avrebbe dovuto cercare di scuoterlo. All’epoca ero piuttosto restia a girare scene di nudo ma capii che quella sequenza avrei potuto girarla al meglio solo con lui: non mi sono pentita. Le nostre vite e le nostre storie professionali sono andate tra noi sempre di pari passo, insomma, e la nostra era una strana amicizia senza nessun tipo di complicazione amorosa. Era meravigliosamente disponibile ed attento, mi sentivo molto amata per come mi parlava e mi sorrideva, per il modo in cui abbassava lo sguardo incrociando il mio, ma tra noi c’è stata sempre e solo una fortissima intesa, forse perché l’ho conosciuto da ragazzina: in quasi trent’anni il nostro rapporto fatto di estrema confidenza e familiarità è rimasto sempre immutato. Per me era una specie di parente, era molto paterno anche nel suo rapporto con il cibo. Ero spesso sua ospite al torneo di tennis che organizzava a Torvajanica e prima ancora nella sua casa di Velletri, dove una volta, durante una festa a cui ero andata con mio marito Nicky portando con noi nostro figlio Vito ancora molto piccolo, fummo costretti ad una fuga pazzesca alle quattro di notte. Cercavamo Ugo a fine serata per ringraziarlo e salutarlo e lo scovammo in uno degli angoli cottura presenti in ogni piano della grande villa, mentre era intento a preparare forsennatamente delle… cotiche fritte: per fortuna dovevamo davvero riaccompagnare il bambino a casa, altrimenti lui ci avrebbe “imprigionato” ancora a tavola per chissà quanto tempo. Verso la fine degli anni ’80 avevo girato a Cremona un film su Stradivari diretto da Giacomo Battiato ed interpretato da Anthony Quinn e quando una volta incontrai Ugo e gli dissi quanto mi era piaciuta la sua città, dove avevo comprato per l’occasione un violino, lo trovai molto amareggiato. Quel film avrebbe tanto voluto girarlo lui, lo sentiva perfetto per le sue corde e sentiva di avere subito un’ingiustizia immeritata, come gli accedeva spesso negli ultimi tempi”. ( Stefania Sandrelli)


“Che ricordo ho di Ugo Tognazzi? Un ricordo molto bello. Come uomo è stato meraviglioso con me, sempre gentile, e sempre si è comportato da gran signore quale era. Ho avuto la fortuna di lavorare con lui ancora sconosciuta, e come grande professionista quale era mi ha sempre dato lo spazio di cui avevo bisogno e mi ha insegnato tantissimo: sono stata molto fortunata ad incontrare nei primi anni di lavoro un uomo ed un attore come lui. Insieme abbiamo fatto “Romanzo popolare” di Mario Monicelli, “La stanza del Vescovo” di Dino Risi e “Primo amore” sempre di Risi. Durante la lavorazione dei film i momenti belli sono stati tantissimi; abbiamo fatto bellissime mangiate insieme, come prevedibile, e mi ha fatto conoscere ristoranti eccezionali che sono rimasti poi parte del mio bagaglio anche culturale: sì, perché dal suo punto di vista il cibo è anche cultura. Di Ugo ci sarebbe da parlare tantissimo: sarei molto felice se di lui non ci fosse solo un ricordo legato al passato ma una memoria che rimanga viva con rassegne e manifestazioni che lo facciano conoscere anche ai più giovani, poiché anche lui fa parte del nostro bagaglio culturale. Ho conosciuto Ugo nel 1974, all’epoca di “Romanzo popolare” di Monicelli, quando avevo poco più di vent’anni, e mi si è rivelato subito una persona splendida e generosa. Lavorare con lui era piacevole e divertente, a parte una serie di ceffoni tremendi che ho dovuto ricevere da lui in una sequenza in cui litigavamo… Sul set ti aiutava moltissimo e riusciva comunque a scherzare ed a smitizzare tutto anche quando erano previste delle scene drammatiche, in quel caso anche grazie a Monicelli, che riusciva sempre a rendere tutto semplice e naturale. In seguito, verso la fine degli anni Settanta, abbiamo girato insieme, diretti da Dino Risi, sia “La stanza del vescovo” che “Primo amore”, diventando una coppia cinematografica affiatata e io mi sono sentita sempre come a casa, a mio agio. Il modo di vivere di Ugo, la sua tendenza costante al gioco ed il fatto che non ti facesse mai pesare le differenze di popolarità e di successo o il ruolo ed il carisma che aveva erano fantastici e il suo atteggiamento verso di me è rimasto sempre identico: lo trovavo geniale perché, oltre che enormemente simpatico fin dall’inizio, con me è stato sempre attento e premuroso, trattandomi sempre alla pari con lo stesso tipo di considerazione e di rispetto. I “mostri sacri” dell’epoca erano molto diversi tra loro pur essendo tutti fantastici per diversi motivi, e con Ugo, forse perché gli sono stata subito simpatica, ho avuto il raro privilegio di trovare non un personaggio tutto preso da se stesso ma un compagno di viaggio che mi ha introdotto in un mondo nuovo e sconosciuto con estrema semplicità e naturalezza. A lui piaceva mescolare il lavoro con la vita, gli piaceva stare bene con le persone e farle stare a loro agio e la maniera più naturale era quella di mettersi a cucinare per creare aggregazione intorno a sé: ricordo ad esempio delle colossali “abbuffate” a San Pellegrino Terme, nell’albergo in cui giravamo “Primo amore”, di cui aveva in pratica requisito le cucine. Era un amico vero e quando, verso la fine, sentivo dire da qualcuno che era molto amareggiato la cosa mi dispiaceva moltissimo: non meritava di essere dimenticato neanche per un attimo, sono sicura che potesse creare ancora tanti personaggi memorabili”. ( Ornella Muti)


“Avevo scritto “La tragedia di un uomo ridicolo” pensando direttamente a Tognazzi, che per me era una specie di icona padana: una volta gli dissi che lo trovavo simile ad una di quelle sculture romaniche che si vedono fuori da ogni duomo in Emilia e che lo immaginavo immobile con la neve che lo ricopriva interamente. Credo che sia stato decisivo per lui il fatto di aver potuto iniziare a lavorare in teatro con la rivista, nella migliore tradizione brechtiana: l’esperienza nell’avanspettacolo gli ha dato una conoscenza quasi fisica del pubblico e delle sue reazioni e poi allo stesso tempo gli ha evitato una preparazione eccessivamente psicologica, come capita spesso agli attori che studiano in scuole importanti. Due sue grandi doti erano il distacco e l’equilibrio, riusciva ad essere totalmente reale senza cadere mai in un eccessivo naturalismo, ma conservando sempre una grande verità. Aveva una grande umanità ed una grande gioia di vivere, ma anche una tendenza alla solitudine ed alla malinconia che lo avvolgeva fin da quando girammo il nostro film che era in pratica tutto sulle sue spalle: alla fine delle riprese mi resi conto che il nostro progetto era molto più difficile e complesso di quello che pensassi, perchè all’inizio la mia intenzione era quella di privilegiare un tono minore. Grazie alla sua interpretazione de “La tragedia di un uomo ridicolo” Ugo vinse meritatamente la Palma d’oro come migliore attore al Festival di Cannes e quando fu informato del premio fu preso da una specie di timidezza che nasce quando ci sono grandi riconoscimenti: ne era come intimidito, ma naturalmente anche molto fiero ed orgoglioso, immaginando che questo riconoscimento avrebbe finalmente spazzato via l’idea che fosse un attore solo comico e quindi superficiale. Aveva conservato una specie di complesso di inferiorità che forse gli veniva dall’esperienza dell’avanspettacolo che si ostinava, a torto, a considerare poco nobile: in realtà Ugo è stato uno dei più grandi attori con cui io abbia mai lavorato. Era anche un uomo estremamente piacevole e generoso: in occasione delle riprese aveva preso una villa vicino a Parma dove quasi ogni week-end invitava tutti noi e ci faceva da mangiare. Una volta, in occasione di una scena che prevedeva su uno sfondo qualcuno che sparava ad un fagiano avevamo, ripetuto le riprese per una decina di volte e lui alla fine chiese di avere per sé i diversi fagiani utilizzati. Li mise a frollare e il sabato successivo ci invitò tutti a mangiarli da lui ma al momento in cui arrivarono in tavola Ugo ci sembrò troppo preoccupato del risultato e così ognuno di noi cercava di nascondere la propria porzione ovunque pur di non deludere le sue aspettative… Ricordo con commozione anche la sua straordinaria generosità nel lavoro: quando uno degli interpreti del film, il bravissimo e compianto Victor Cavallo all’inizio delle riprese fu preso da una sorta di attacco di panico, Ugo lo mise subito a suo agio dicendogli: “Cavallo, tu sei un fantino che monta se stesso!”. ( Bernardo Bertolucci)


Aveva tutto per essere felice: una splendida residenza agreste, una moglie straordinaria, i figli belli e bravi, una supercucina dove svolgere quotidianamente i riti di quella metafora dell’esistenza che era per lui la gastronomia. Aveva la stima degli intellettuali, la simpatia universale dei semplici e appeso al muro il diploma della Légion d’honneur per aver recitato Pirandello in francese a Parigi. Niente male per un ex fucinatore d’ilarità dell’avanspettacolo, cresciuto a cappuccini e viaggi in terza classe. È vero che il cinema, dopo oltre 140 film, gli stava voltando le spalle, ma in teatro chiamava popolo come pochi. Il suo ineffabile carisma, tra il mite e il sornione, era tale che la gente sarebbe accorsa a sentirlo recitare l’elenco telefonico. Aveva proprio tutto: l’agiatezza, l’affetto di una cerchia fedele, la soddisfazione del cammino compiuto, un’intermittente residua curiosità di nuove avventure, un fisico ancora resistente alle fatiche dell’arte e della vita. Ma felice non era, tutt’altro. Qualcosa lo rodeva dentro e a tratti, improvvisamente, scoloriva la leggendaria ironia del suo sguardo. Che diventava vuoto, assente. Oppure allarmato, quasi implorante. Intorno al tavolo da pranzo i familiari coglievano questi segnali e scambiavano impercettibili occhiate furtive. Sull’edonistico eremita di Velletri aleggiava l’incubo di una ciclica depressione. Un morbo che non si misura con il termometro, non si accerta con le radiografie e prove da laboratorio. Ma una malattia reale, qualcosa che intender non la può chi non la prova. Forse Ugo sentiva la vita che gli sfuggiva come la sabbia dalla clessidra, si accorgeva con angoscia di parlare troppo spesso al passato, paventava che il meglio di tutto fosse ormai trascorso. In questa vulnerabilità c’era ancora, come spesso nelle sue interpretazioni, il segno di un’originale contraddizione. Eroe di un vitalismo senza risparmio, tra Casanova e Rabelais, i suoi anni di fuoco erano stati quelli errabondi della rivista, da una piazza all’altra, circondato da stupende soubrettine e altri cani sciolti”. ( Tullio Kezich)
“Ugo Tognazzi ha molto pesato nella storia materiale di questo paese. Altri han fatto dei film, altri han lasciato delle battute, altri ancora han solo arraffato dei soldi. Tognazzi ha fatto un pezzetto della storia materiale di questo paese. […] Tognazzi ha laicizzato l’Italia con “Un, due, tre”, l’ha infilata nella 600 Fiat di “RoGoPaG” e poi in quella di “Vernissage” (episodio dei Mostri): due film che sono il doppio e il contrario ideologico uno dell’altro perché nessuno come Tognazzi sapeva fare un personaggio e il suo opposto. Il vizioso e il moralista, il donnaiolo e l’omosessuale, il vitalista e l’autodistruttivo, il dilapidatore e lo strozzino. Tognazzi ha fatto scoprire agli italiani il sesso e la psicanalisi, l’eros e la pulsione di morte”. ( Tatti Sanguineti)
“L’esperienza de “La califfa” resta unica, perché con Ugo l’affrontammo portando sul set il piacere ironico, il gusto della parodia tipici della nostra terra, di cui ci eravamo nutriti negli atti anche minimi di un’intensa amicizia. A tavola, o camminando di notte, od oziando in casa mia e di Ugo a deridere il passare del tempo inventando bagole: da quelle private recite a due, nacque un linguaggio che era un po’ un codice segreto e aveva della civiltà del Pò, le cadenze, le iterazioni”. ( Alberto Bevilacqua)
Domenico Palattella
Uno dei più grandi
"Mi piace""Mi piace"