
“Una chiorma di amici. Eravamo una vera e propria chiorma di amici, cioè un gruppo compatto, tutti principianti pieni di speranze, tutti uomini, tutti artisti che poi si sono piazzati, io, Eduardo, Peppino, Nino Taranto, Dapporto, Macario, Campanini, Fabrizi, De Sica. Facevamo la gavetta nei teatrini di provincia di Aversa, Torre del Greco e altri paesini sperduti di provincia, sotto il gelo, il caldo cocente, la grandine o il vento di scirocco; chi faceva la prosa, chi il varietà: eravamo una chiorma…” ( Totò )
Queste parole del principe De Curtis sintetizzano la gavetta che lui e i suoi illustri colleghi e amici hanno dovuto affrontare. Erano “una chiorma” che si riuniva e si separava in continuazione, in cui ognuno cercava una scrittura, un numero, un’esibizione, e in cui le esperienze comuni cementavano un’amicizia che cresceva. Di regola, d’estate si girava la provincia, nel resto dell’anno si cercavano scritture in periferia, o se riusciva il colpo, si entrava in qualche compagnia che girava l’Italia. Era in questo clima comune che, seppur tra sparate d’orgoglio e un pizzico di egoismo personale, erano cresciute queste solidissime amicizie, tra coloro che negli anni ’50 sarebbero diventati tutti quanti insieme le “stelle del cinema”. La descrizione delle scalcinate compagnie di rivista e di avanspettacolo, delle loro fatiche per “sbarcare il lunario”, dei centinaia e centinaia di sacrifici fatti, di saltare quasi sempre il pranzo e forse anche la cena, per inseguire il magico sogno di fare l’artista di rivista, teatro o avanspettacolo, sono state oggetto di numerosi film tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50: pellicole che hanno avuto un ottimo successo di pubblico.

Il cinema ha conservato documenti e ricostruzioni dell’avanspettacolo, di questo magico mondo, sfornando film memorabili, uno su tutti, “Luci del varietà”(1950), con Peppino De Filippo che interpreta magistralmente un guitto che gira la provincia con la sua scalcinata compagnia. La regia della pellicola è opera del tandem Lattuada-Fellini, il grande regista riminese è al suo primo film. Il mondo del varietà viene descritto dai due registi, con affetto, ironia, un acuto senso del grottesco e un’amarezza di fondo. Peppino è qui superlativo nel tratteggiare senza eccessi l’artista semifallito che si porta la mediocrità stampata sul volto, ed ha con questo film un’occasione con i fiocchi, cioè il ruolo a cui ogni comico ambisce almeno una volta nella vita. C’è naturalmente qualcosa di autobiografico nel personaggio interpretato da Peppino, che dovette ricordare all’attore la seconda metà degli anni ’20, quando batteva le piazze dell’Italia centrale e meridionale con guitti disposti a tutto, spinti e ispirati molto più dalla fame che dall’arte. Dello stesso genere sono anche altri film, in un certo senso similari, come “Vita da cani”, sempre del 1950, con Aldo Fabrizi e Gina Lollobrigida; “Partenza ore sette” di tre anni prima con Carlo Campanini, irresistibile in alcune scene, come l’episodio della compagnia assalita dai banditi che lasciano tutti in mutande e quasi surreale il suo fregolismo finale nei panni dei suoi tanti parenti; “Ci troviamo in galleria”, con Carlo Dapporto del 1953; e molti anni dopo quasi a ricordare i bei tempi ormai andati, “Polvere di stelle”(1973), nostalgica rievocazione del mondo dell’avanspettacolo, di e con Alberto Sordi.

Negli anni post-1945 la rivista diventa anche un genere da filmare così com’è. Ingenuamente desiderosa di sfarzo la gente affollava i grandi teatri di varietà delle città maggiori e acclamava i propri eroi. Così nasceranno capolavori come “I pompieri di Viggiù”(1948), con Totò, Nino Taranto, Carlo Campanini e Carlo Dapporto, che è uno straordinario documento storico, di grande valore, sul mondo sfarzoso della rivista; e successivamente le riviste filmate “Attanasio cavallo vanesio”(1953), “Alvaro piuttosto corsaro”(1954) e “Giove in doppiopetto”(1954), frutto dell’inventiva della celebre coppia di autori composta da Garinei & Giovannini e della loro collaborazione con Renato Rascel ( per le prime due pellicole) e Carlo Dapporto ( per la terza pellicola). Queste tre favole musicali di enorme successo, riuscirono ad innovare la rivista, inventando la cosiddetta “commedia musicale italiana”, per intenderci il “musical all’italiana”, genere destinato a fare epoca. Dato che i nomi più popolari del cinema italiano, negli anni post-1945, saranno proprio gli attori provenienti dalla rivista, si pensò dunque di costruire attorno ad essi dei film a protagonista unico e lanciarli così nel grande cinema. Ci fu quindi, in primis, l’exploit del principe De Curtis, in arte Totò, il re del cinema comico del dopoguerra, l’attore più amato e acclamato di tutte le generazioni. Dopo “I due orfanelli”(1947), del regista Mario Mattoli, che ha il merito di aver compreso per primo le qualità cinematografiche del grande Totò, seguì la valanga, è da qui che parte la sua strepitosa carriera cinematografica. Nel 1948 escono due film di Totò: “Fifa e arena” e “Totò al giro d’Italia”, due tra i più riusciti risultati del comico napoletano. Ne seguono tre nel 1949, tra cui i celeberrimi “Totò cerca casa” e “Totò le mokò”. Addirittura 7 nel 1950, tra cui i capolavori “L’imperatore di Capri” e “Totò cerca moglie”, 4 nel ’51, 4 nel ’52, 7 nel ’54, con titoli rimasti nella storia come “Totò a colori”, primo film a colori della storia del cinema italiano, che è forse il miglior film di Totò, ma certamente quello che ha incassato di più; “Miseria e nobiltà”, splendida versione cinematografica del testo del commediografo Eduardo Scarpetta, così come “Un turco napoletano”, ancora una riduzione tratta dal teatro scarpettiano. Cifre simili bastano da sole a comprendere il successo incredibile raggiunto da Totò, un successo inarrivabile, un connubio perfetto tra l’attore, la macchina da presa e il pubblico.

All’inizio degli anni ’50 si cercò di replicare l’ operazione Totò, reclutando tutti i popolarissimi big della rivista, per il grande schermo, cercando di cucire film divertenti sulle loro spalle e sulle loro vis comiche. Sorsero così le splendenti stelle di Renato Rascel, Nino Taranto, Carlo Dapporto e Walter Chiari, che ebbero i risultati migliori in termini di incassi. Il primo ebbe i suoi cavalli di battaglia nelle già citate favole musicali di Attanasio e Alvaro, ma anche ne “Il cappotto”(1953), splendida riduzione cinematografica del capolavoro del russo Gogol; in “Rascel fifì”(1956) e “Rascel marine”(1957), pellicole basate fin dal titolo sul suo nome e sulla sua classe interpretativa; nel delicato “Policarpo, ufficiale di scrittura”(1958), che peraltro trionfò a Cannes; e ne “Il corazziere”(1961), ispirato ad una sua famosissima macchietta, nel quale si ripercorre la strada di contemporanei film comici “impegnati” come “Tutti a casa”, con Alberto Sordi, rivisitando momenti di storia patria. Altro grande protagonista del nostro cinema, “prestato” dalla rivista, è Nino Taranto, che fin dalla fine degli anni ’40, interpretò pellicole molto popolari e di successo, le più importanti delle quali sono: “Il barone Carlo Mazza”(1948), ispirato ad una sua popolare macchietta di rivista; “Anni facili”(1953), per il quale, con una magistrale interpretazione vinse il Nastro d’argento come miglior attore protagonista, entrando così nell’olimpo dei grandi del cinema italiano; “Accadde al commissariato”(1954), nel quale interpreta un umano e comprensivo commissario di polizia, in una delle pellicole più famose del decennio dei ’50. Poi c’è Dapporto, protagonista di parecchie commedie popolari e di successo, almeno fino alla metà degli anni ’50: è mattatore assoluto del film “Il vedovo allegro”(1949), film sentimentale più che comico, interessante anche per l’ottima interpretazione di Dapporto, qui nel suo primo ruolo a tutto tondo; si conferma eccellente attore protagonista poi, anche nel suo capolavoro, “Giove in doppiopetto”(1954), splendida trasposizione cinematografica tratta dall’Anfitrione di Plauto, in cui Dapporto ha modo di rendere al meglio tutta la sua debordante vis-comica, tra travestimenti esilaranti e frizzi e lazzi di grande divertimento.

Il cinema italiano “post neorealismo” dunque, guardava quindi a due strade differenti ma parallele ( che si congiungeranno e fonderanno qualche anno dopo nella “commedia all’italiana”), della prima ne abbiamo già ampiamente parlato, la seconda strada era invece il tentativo di costruire una cosiddetta “commedia cinematografica neorealista”, nata dalle ceneri del neorealismo, servendosi di spunti molto legati alla realtà contemporanea, e che venne definita con il nome di “neorealismo rosa”. I massimi esponenti di questo genere furono Vittorio De Sica, Totò, Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Gino Cervi, e tra i precursori del genere anche Macario. I primi tentativi si ebbero proprio con quest’ultimo, e precisamente con la trilogia di successo dedicata al povero soldatino che si arrangia come può di fronte alle traversìe della guerra e poi, a guerra finita, per trovare un posto di lavoro, tra le macerie di un’Italia ferita, ma che tenta di rialzarsi. “Come persi la guerra”(1947), “L’eroe della strada”(1948) e “Come scopersi l’America”(1949) hanno un qualcosa di molto nuovo, che spinse il pubblico a riconoscersi e a decretarne il trionfo, ovvero la materia era di estrema attualità, perché parlavano di ferite ancora aperte e riflettevano le delusioni e la difficile rinascita della democrazia nel nostro paese. Quale miglior interprete di Macario, con quella sua maschera candida e surreale, per esprimere tale sentimento di rinascita nazionale, che di lì a poco porterà verso l’agognato e meritato “benessere economico”. Macario, con questi tre film si consacrò tra i grandi del nostro cinema, specialmente “Come persi la guerra”, con i suoi 800 milioni di lire di incassi, si issò come campione di incassi della stagione 1947/48. Da segnalare poi, anche “Il monello della strada”(1950), il suo film più bello, una splendida favola dei buoni sentimenti, dalla suggestione e dalla delicatezza difficilmente eguagliabili, con una scena rimasta nella storia del cinema italiano: quando, come per incanto il tempo si ferma e Macario corre per la città ( Torino ) dove tutto si è arrestato all’improvviso, affinché lui possa riguadagnare il tempo perduto e sconfiggere i cattivi. Compiuta la sua missione l’angelo annulla l’incantesimo: sublime! Un film che tocca davvero le corde della poesia, grazie anche alla perfetta interpretazione di Macario, del quale a proposito di questa pellicola si disse: “è considerato il miglior film postbellico di Macario, quello in cui riesce meglio a uscire dagli schemi della rivista”.

La svolta definitiva verso la commedia all’italiana, avvenne con la celeberrima pellicola “Pane, amore e fantasia”(1953), destinata ad entrare nella storia del cinema italiano. Il successo del film fu qualcosa di impensabile, un film destinato a fare epoca e che ebbe addirittura tre seguiti. Di certo al successo del film contribuirono non poco le interpretazioni di Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida, assolutamente memorabili nei panni, rispettivamente del maresciallo dei carabinieri e di Pizzicarella la bersagliera. Due figure entrate di diritto nell’immaginario comune popolare. L’incredibile incasso di un miliardo e mezzo di lire, convinse la Titanus ( la casa di produzione del film) a mettere in cantiere l’immediato seguito del primo film, talmente richiesto dall’incredibile successo di pubblico, che il seguito inizia esattamente dove finiva l’altro, senza bisogno di riassumere i fatti o presentare i personaggi tanto era stato visto e amato. Il seguito si intitolò “Pane, amore e gelosia”(1954), ancora sostenuto dall’umanissimo umorismo di De Sica e dalla popolare avvenenza della Lollo, offre, fra le pieghe della commedia di caratteri, un quadro dei sogni e delle realtà dell’Italia preboom economico più efficace di tanto documentarismo sociologico. I primi due film della serie sono da considerarsi il punto di svolta del nostro cinema verso la commedia all’italiana vera e propria, inaugurando il cinema popolare disimpegnato degli anni ’50. Dopo i successi dietro la macchina da presa, con questo film le quotazioni del De Sica-attore ripresero quota vertiginosamente. Questo successo inaspettato, sorprese un pò tutti, a cominciare dai suoi stessi artefici. Comencini ( il regista), Margadonna ( lo sceneggiatore) e forse anche De Sica stesso, quasi non si interrogarono sulle ragioni che furono alla base di questo successo e che potevano giustificare una tale affluenza di pubblico. Il fatto è che agli inizi degli anni ’50, il cinema italiano trovava una strada che metteva il popolo al centro delle sue storie, ma che per la prima volta cercava un modo per parlare con il popolo. E usare la sua lingua e la sua cultura, la sua esperienza e la sua sensibilità. Negli anni ’50 il ruolo di De Sica è cruciale per il cinema italiano. Non solo De Sica rinnova la sua popolarità di attore, dopo i film neorealisti, ma, partecipando a numerosi film comici e leggeri, spesso come direttore di recitazione o supervisore artistico, diviene per giovani attori e registi una guida e un consigliere sul set, un “Maestro” per quello che costituirà la struttura portante del sistema produttivo italiano. Infatti, il suo film più rappresentativo, “Pane, amore e fantasia” ( nel quale un’enorme platea di italiani, appena inurbati, riconobbe nel maresciallo dei carabinieri una figura familiare), e il terzo della serie, “Pane, amore e…”(1955), rappresentano anche i primi successi delle carriere di registi importanti come Luigi Comencini e Dino Risi, che letteralmente crebbero sotto l’egidia del maestro De Sica.

Tra gli altri film precursori della commedia all’italiana, non si può non segnalare la splendida “pentalogia” delle avventure di Don Camillo e del sindaco comunista Peppone, interpretati magistralmente dall’attore francese, ma di origine italiana, Fernandel, e dal bolognese Gino Cervi. I due personaggi, nati dalla penna del sagace e pungente Giovannino Guareschi, hanno saputo dare concretezza e colore, nell’Italia del dopoguerra, a due delle anime più diffuse nell’immaginario della piccola borghesia nazionale, divisa dalle ideologie ma unita dal “buon senso delle cose concrete”. Don Camillo è il sanguigno parroco di campagna di Brescello, un paesino emiliano di quella “fettaccia di terra che sta tra il Po e l’Appennino”; Peppone è il sindaco, acceso comunista e nemico dichiarato della Chiesa; la loro convivenza è eternamente polemica, e la passione trascina spesso i due contendenti a far volare pugni, panche e tavole per difendere i loro argomenti, salvo poi aiutarsi vicendevolmente quando la necessità lo richiede. Al successo dei 5 film della serie ( “Don Camillo”-1952, “Il ritorno di Don Camillo”-1953, “Don Camillo e l’onorevole Peppone”-1955, “Don Camillo monsignore…ma non troppo”-1961, “Il compagno Don Camillo”-1965) contribuirono in maniera significativa i volti e le interpretazioni dei due protagonisti, Fernandel e Gino Cervi, che diventarono grandi amici anche fuori dal set. Furono talmente perfetti, che i due personaggi gli rimasero addosso vita natural durante, è impossibile per lo spettatore infatti, scindere la figura di Fernandel da quella di Don Camillo, e la figura di Cervi da quella del sindaco Peppone. Ad esempio persino quando Cervi, sarà un fenomenale commissario Maigret, si tenderà a pensare a Peppone; oppure se si vedeva Fernandel in un altro film, e ovviamente in abiti borghesi, quasi si diceva “non sta bene che Don Camillo, vada in giro senza la tunica d’ordinanza”.

Dell’inizio del decennio è, un altro film, davvero molto significativo per lo sviluppo della commedia all’italiana, una pellicola particolare, divertente e inusuale nel panorama cinematografico nazionale: “La famiglia Passaguai”. Il film può essere a tutti gli effetti considerato una delle più grandi commedie italiane degli anni ’50. Regista, attore, co-sceneggiatore e produttore, insomma, il vero mattatore del film è Aldo Fabrizi, coadiuvato da un cast di primo livello: Ave Ninchi, Peppino De Filippo e Tino Scotti per citarne alcuni. La pellicola è una scatenata commedia di costume e degli equivoci dove Fabrizi ironizza amabilmente sui comportamenti di una piccola borghesia romana che si confronta a fatica con i primi segni del benessere economico. Utilizzando l’esilissima trama come un vero e proprio canovaccio su cui innestare invenzioni e trovate, Fabrizi ottiene effetti comici davvero irresistibili. Il successo di pubblico fu enorme, tanto che Fabrizi mise subito in cantiere altri due seguiti delle avventure della famiglia Passaguai: “La famiglia Passaguai fa fortuna”, con Macario al posto di Peppino; e “Papà diventa mamma”, che si confermarono all’altezza del primo film. Di notevole interesse anche il delicato “Hanno rubato un tram”(1954), sempre con Aldo Fabrizi e “Arrangiatevi!”(1959), una delle più importanti commedie degli anni ’50, ispirato alla discussa legge Merlin sulla chiusura delle “case chiuse” e interpretato magistralmente da Peppino De Filippo nel ruolo di protagonista e da Totò in partecipazione straordinaria.

A metà degli anni ’50, Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Totò, Nino Taranto, Renato Rascel, Vittorio De Sica, Carlo Dapporto, Gino Cervi sono ancora indiscutibilmente le massime star del nostro cinema, mentre la televisione si sta diffondendo in tutto il paese e alletterà molti di loro. Cinque/sei, anche sette film l’anno a testa e in più per alcuni di loro anche il teatro e la rivista: ritmi frenetici, ma successo assicurato. Tra le migliori pellicole del decennio troviamo, “Via Padova 46″(1953), con Peppino De Filippo, Carlo Dapporto e Alberto Sordi; “Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo”(1956), con Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Alberto Sordi e Gino Cervi; “La presidentessa”(1952), con Carlo Dapporto e Silvana Pampanini; “Il segno di Venere”(1955), con Peppino De Filippo, Vittorio De Sica, Alberto Sordi e Sophia Loren; “Mariti in città”(1957) , con Nino Taranto e Renato Salvatori; “Il cardinale Lambertini”(1954) e “Il cambio della guardia”(1961), con Gino Cervi; il celeberrimo “Un giorno in pretura”(1954), con Peppino De Filippo pretore e Sordi e Chiari imputati; “I prepotenti”(1958), con Aldo Fabrizi e Nino Taranto consuoceri combinaguai; “Il generale Della Rovere”(1959), con uno struggente Vittorio De Sica; “Vacanze a Ischia”(1957), ancora con Vittorio De Sica e Peppino De Filippo; “Arrivederci Roma”(1957), con Renato Rascel, ispirata alla sua omonima canzone di successo; “La nonna Sabella”(1957) e “La nipote Sabella”(1958), con Tina Pica e Peppino De Filippo; “Un militare e mezzo”(1959), con Aldo Fabrizi e Renato Rascel; “La moglie è uguale per tutti”(1955), con Nino Taranto avvocato matrimonialista; o ancora “Padri e figli”(1957) con Vittorio De Sica; “Totò, lascia o raddoppia?”(1956), “Siamo uomini o caporali”(1955) e “Totò e Carolina”(1955), con Totò; e poi epocale sarà l’accoppiata Totò-Peppino De Filippo, un connubio perfetto che porterà alla creazione di capolavori comici di splendida efficacia.

Il connubio tra Totò e Peppino De Filippo risultò fin da subito vincente, in un continuo gioco di alternanza nel quale nessuno dei due è vera e propria spalla, ma si coadiuvano a vicenda. Certo è possibile riscontrare alcune caratteristiche peculiari e che si ripeteranno in tutti i 16 film interpretati insieme: Peppino è quasi sempre la vittima e Totò il carnefice, quello che lo vessa continuamente, ad esempio fregandogli il denaro, chiudendoli le dita in una pressa e così via. Il pubblico affollò le sale e portò al trionfo la coppia. Tutto iniziò con il film “Una di quelle”(1953), diretto da Aldo Fabrizi, per una storia dai toni agro-dolci, non siamo ancora alle loro farse scatenate di qualche anno dopo, ma una prima avvisaglia di quel che potranno creare se lasciati a briglia sciolta, si nota eccome. Il successo in coppia arrivò infatti con “La banda degli onesti”(1956), quasi una prova generale dei “Soliti ignoti”, con alcune scene davvero da antologia della risata; e si consacrò con il loro film più riuscito, “Totò, Peppino e la malafemmina”(1956), un gioiello di comicità surreale con l’esilarante scena della dettatura della lettera e l’arrivo dei due a Milano intabarrati come cosacchi, con le provviste per la sopravvivenza e una lanterna a olio per orientarsi nella nebbia. Una pietra miliare di inestimabile valore. Lanciata la coppia, il loro connubio, considerando che non facevano coppia fissa cinematograficamente parlando, come ad esempio Franchi & Ingrassia, o in America Stanlio & Ollio, continuò con altri film di successo fino al 1963: titoli come “Totò, Peppino e i fuorilegge”(1956), “Totò, Peppino e le fanatiche”(1958), “Signori si nasce”(1961), “Chi si ferma è perduto!”(1961).

Nei primi anni ’60, nonostante l’affermarsi della commedia all’italiana e dei cosiddetti “mostri” di tale genere, non mancano le pellicole degne di nota, segno che gli attori della “prima generazione” hanno ancora alcune cartucce in canna. “I quattro monaci”(1963) è uno dei più fulgidi esempi, interpretato da quattro poker d’assi della risata, come Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Nino Taranto e Macario. I quattro grandi attori trainano divertendo e divertendosi, una pellicola che vale come uno degli ultimi, autentici peduncoli di celluloide, di un vecchio modo di fare cinema. Una pellicola vispa e naif, diretta da Carlo Ludovico Bragaglia con la consueta competenza, gestendo al meglio i tempi comici e la compresenza insieme, dei quattro leoni del palcoscenico e del cinema italiano, che invece di alternarsi davanti alla macchina da presa vivono le loro avventure perennemente insieme. Una bella lezione di misura e di collaborazione comica tra quattro assi del cinema italiano, i quali erano anche molto amici. Grande successo di pubblico. Tra gli ultimi grandi fuochi degni di segnalazione, possiamo segnalare il campione di incassi della stagione 1964/65, “In ginocchio da te”, con Nino Taranto che tiene a battesimo la coppia Morandi-Efrikian, così come succederà con Al Bano e Romina Power per il film “Nel sole”, qualche anno più tardi. Il vero mattatore di queste pellicole modeste, ma di grande successo, è Nino Taranto, che peraltro in questo periodo è al cinema anche in coppia con il suo illustre collega Totò e tra cui spicca il loro capolavoro, “Totòtruffa ’62”, Il miglior film della coppia Totò- Nino Taranto. Il film è costruito su una carrellata di travestimenti e una serie di sketch passati alla storia del cinema italiano: celeberrimo ad esempio quello della vendita della fontana di Trevi. Torna poi in auge al cinema, con una serie di film popolari, anche Macario; e si conferma Peppino De Filippo, con la pietra miliare de “Le tentazioni del dottor Antonio”, episodio del film “Boccaccio ’70″(1962), diretto dal maestro Federico Fellini. Peppino è qui perfetto nei panni di uno strenuo difensore della moralità pubblica e della decenza dei costumi, nell’Italia casta dei primi anni ’60. In ultimo vi è da menzionare almeno “Gli onorevoli”(1963), con Totò, Gino Cervi, Peppino De Filippo, Franca Valeri, e tra i quali spicca l’interpretazione del grande Totò, con il suo celeberrimo slogan “vota Antonio, vota Antonio”, rimasto nella memoria collettiva.

“Una chiorma di amici”, si diceva a inizio saggio, “una chiorma di amici” che si riuniva e si separava in continuazione, e in cui le esperienze comuni cementavano un’amicizia che cresceva. Questo vale anche per gli anni del successo, per gli anni del cinematografo, amicizie solide e sincere: ad esempio Totò e Peppino che si frequentavano spesso, sovente organizzavano scherzi al loro amico Fabrizi; oppure Nino Taranto che in segno di devozione non riuscì mai a dare del tu al suo grande amico e collega Totò; o ancora si pensi allo stesso Aldo Fabrizi che organizzava mega-galattiche tavolate e mangiate per tutti i suoi amici e colleghi; oppure De Sica che invitata nella sua casa colleghi del calibro di Rascel, Stoppa, Rossellini e altri grandi nomi, per cenare, passare del tempo insieme, e facendo loro assistere alle recite dei suoi due figli maschi ( Christian e Manuel), di alcuni sketch scritti da lui in persona. Molti di loro erano anche generosissimi, chi non sa al giorno d’oggi della generosità del principe De Curtis, che aiutò tanta gente a campare, con i proventi derivanti dai successi cinematografici; o De Sica e Taranto, che avevano fatto dell’umiltà la peculiaretà delle loro carriere. Attori, artisti, uomini di cuore al servizio del pubblico, al servizio di un’Italia che faticosamente stava rialzandosi dallo sfacelo della seconda guerra mondiale, la squadra del buonumore, insomma una vera e propria “chiorma di amici” al servizio della collettività e dell’arte.

Domenico Palattella